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TRATTO DAL CAPITOLO V DI ELISA MAIORANO

Gioacchino Ingroia, detto Iachino, era un ragazzo di diciassette anni e lavorava come apprendista fornaio presso la panetteria “Le Dolci Delizie”. Abitava in un quartiere periferico del paese dove, ai lati delle strade strette, sorgevano palazzi di quattro o cinque piani, abitati da povera gente, per lo più operai. Tutte le mattine si svegliava alle tre e mezza perché alle quattro in punto doveva essere sul posto di lavoro. Si caricava sulle spalle la bicicletta, che teneva in casa, dato che gliene avevano già rubate due, scendeva tre piani di scale, montava in sella e si avviava, cantando a squarciagola, perché era un ragazzo allegro e poi, cantando, si faceva compagnia in quelle strade solitarie. Le sue canzoni preferite erano, da sempre, “Volare” e “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”; a volte accennava il ritornello di “Ragazza del Sud”, la canzone vincitrice del festival di Sanremo di quell’anno. Giunto all’altezza del civico 38 del corso principale, come d’abitudine, guardò prudentemente in su, per accertarsi che le imposte del ragionier Mandalà fossero chiuse.

Per capire tale comportamento, bisogna sapere che il suddetto ragioniere soffriva d’insonnia, e prima di riuscire ad addormentarsi, sudava le fatidiche sette camicie. Quando poi c’era riuscito, aveva un sonno così leggero da bastare un alito di vento per svegliarlo. Ora, Iachino, per tenere la sua destra, come da codice della strada, doveva passare proprio sotto il balcone del ragioniere. D’inverno, con le imposte chiuse, non c’era alcun problema. D’estate, invece, con le finestre aperte, la cantata sguaiata di Iachino, per il ragionier Mandalà equivaleva a sparargli una cannonata nelle orecchie, quando si era appena addormentato dopo tanto penare. Una notte, non potendone più, era sceso in strada e, quando era passato il ragazzo, lo aveva apostrofato in malo modo, dicendogli che era un maleducato e che quella non era l’ora di mettersi a cantare come un pazzo per le pubbliche vie.

Iachino, che era dispettoso come tutti i ragazzi e forse un po’ di più, specie se lo prendevi per il verso sbagliato, la notte successiva, passando in quel punto, aveva aumentato il volume della voce e accentuato la naturale stonatura. Pertanto, a buon diritto, il ragioniere, che aveva inteso quella risposta di Iachino come una dichiarazione di guerra aperta, la notte dopo, si era opportunamente appostato e, quando il ragazzo era transitato sotto il suo balcone, gli aveva lanciato un gavettone d’acqua fredda di frigorifero. Inoltre, due notti dopo, dato che Iachino non se n’era dato per inteso e aveva continuato nelle sue azioni di guerra, gli aveva fatto un secondo gavettone, ma questa volta aveva riempito il secchio con urina, accuratamente messa da parte durante il giorno, cosicché il ragazzo era stato costretto a tornare a casa per lavarsi e cambiarsi. Di conseguenza, aveva fatto tardi al lavoro e si era anche dovuto sorbire gli improperi e le minacce di licenziamento del fornaio.

Il ragazzo, tuttavia, non aveva desistito dalla sua azione di disturbo, pensando che aveva perso una battaglia ma non la guerra. Solo, si era fatto più prudente e, d’estate, quando giungeva all’altezza del civico 38, si spostava tutto sul lato sinistro, fuori dalla gittata di Mandalà. Questi, dal canto suo, non potendo più ricorrere alle bombe d’acqua o di orina, si era comprato una cerbottana bella lunga. La sera, preparava cinque o sei coppetti di carta e li armava, sulla punta, con degli spilli. Con questi micidiali proiettili bersagliava a raffica Iachino che ora, quando passava davanti a casa sua, pedalando a zig-zag per evitare i proiettili, aveva preso a intonare, o meglio a stonare, una canzone che faceva: “Bisogna saper perdere, non sempre si può vincere” e concludeva la strofa con uno sfottente “zunzù” accompagnato dal gesto del braccio ad ombrello.

«Questo cornutazzo mi provoca; mi vuole fare compromettere!» urlava al vento il ragioniere pieno di rabbia, che cresceva ancor più quando vedeva che nessuno dei coppetti che scagliava contro il ragazzo andava a segno, dato che Iachino era abilissimo a schivarli. Allora, per sfogarsi, Mandalà non trovava di meglio che urlargli dietro:

«Tua madre è una buttana! Ma no di lusso però. Nossignori! Di quelle da mille lire a botta e ti ha concepito con un disperato che manco quelle aveva. Solo cinquanta lire ci diede e tu giusto tanto vali.»

Ora che la primavera era appena iniziata, le nottate fresche si alternavano ad altre più calde. Quindi, la prudenza suggeriva a Iachino di verificare se il ragioniere avesse le imposte chiuse o aperte, per proseguire nel cammino retto, o deviarlo, spostandosi tutto a sinistra, a seconda del caso.

******

Quell’otto maggio, intorno alle due e trenta, dopo aver superato indenne il punto fatidico, il ragazzo prese a pedalare con più brio. Quando arrivò in prossimità del minimarket ‘Gulì e Sciacchitano’, fu colpito da un intenso bagliore proveniente da via Pitré, una traversa laterale a fondo chiuso. Questa via, nella quale sorgevano abitazioni eleganti, terminava con una piazzetta privata adornata da palme e, per questo, denominata “piazzetta delle Palme”. Al centro di essa era stata posta una fontana circolare, dove i bambini del quartiere si divertivano a vedere nuotare, sotto allegri zampilli, i grossi pesci d’acqua dolce che la popolavano.

Iachino smise di cantare, affascinato da quel bagliore rossastro che infuocava il cielo, come un tramonto nelle sere d’agosto.

«Mih, ma chi è l’illuminazione di santa Rosalia? E chi semu a Palermo!» esclamò ad alta voce.

Poi, però, si accorse che, oltre alla luce, c’erano anche del fumo denso e scuro e mille faville che si levavano verso il cielo.

«Mih, ma allura la vampa di San Giuseppe è!»

Subito dopo, però, rifletté sul fatto che il 19 di Marzo era già passato da un pezzo e che, comunque, non era logico accendere la vampa a quell’ora di notte, quando nessuno la poteva vedere. Così, spinto dalla curiosità, si addentrò in via Pitré e poté constatare che il bagliore e il fumo provenivano da una delle ultime villette che sorgevano nella piazzetta, che stava andando a fuoco. Proprio in quel momento vide un uomo che, da quelle villette, si dirigeva verso la via Pitrè. Giunto all’altezza della fontana, si arrestò per un attimo e vi buttò dentro qualcosa, che doveva essere pesante perché, subito dopo lo splash dell’impatto con l’acqua, si avvertì il rumore dell’urto dell’oggetto contro il fondo della vasca. Poi, l’uomo riprese il cammino.

«Un incendio c’è! Aiuto, chiama qualcuno!» gli gridò Iachino, con gli occhi che gli cominciavano a lacrimare per via del fumo che un venticello leggero spingeva verso di lui, ma quello lo guardò con gli occhi di un pazzo e proseguì senza una parola. In preda a forte agitazione, non sapendo che fare, Iachino cominciò a suonare i citofoni dei palazzi, gridando: «Al foco! Al foco!»

«Va rumpiti i corna, disgraziato!»

«A buttanazza di to soru va a focu!»

«Va curcati curnutazzu, inveci di scassari i cabassisi alla gente chi dormi!»

«Si scinnu, ti ci mettu a tia a focu!»

Il più cortese gli gridò: « Spiramu ca murissi i subitu!»

Alla fine, per fortuna, qualcuno pensò bene di affacciarsi dalla finestra e così scoprì che il fuoco c’era davvero e minacciava di estendersi agli edifici vicini.

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