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CCÀ CI VUOLE PATRE PINTACUDA!

Nel capitolo VI del mio romanzo “GELSOMINO ROSSO SANGUE”, intitolato “Un ricordo dolce e malinconico” l’investigatore privato Tony Valente ricorda l’episodio della sua fanciullezza che gli fece scoprire di possedere la facoltà di entrare in contatto con le anime dei defunti, al verificarsi di particolari condizioni.

Rosalba, una bimbetta di cui Tony (Nino) è innamorato, e la sua famiglia scompaiono. Tutti pensano che siano fuggiti perché braccati dai creditori del padre. Nino però, una notte, nella sua cameretta riceve la visita della fanciulla che gli rivela la tragica verità: non sono fuggiti ma sono tutti morti a causa delle esalazioni sprigionatesi da un braciere acceso per riscaldare la camera in cui dormivano. Non possono, però, lasciare del tutto la vita terrena perché nessuno conosce la loro sorte. Rosalba lo prega di aiutarli ad “andarsene”, facendo in modo che la verità venga scoperta e i loro corpi possano avere adeguata sepoltura.

La mattina dopo, Nino rivela tutto ai genitori. Quella che segue è la narrazione della loro reazione, riportata nella prima stesura del romanzo e poi cassata.

Il padre, un uomo grande e grosso, dapprima sbiancò, poi diventò verde, infine paonazzo. Lo afferrò per le spalle e cominciò a scuoterlo convulsamente:

«Queste cose non esistono!» e scuoteva.

«Queste cose non si dicono!» e scuoteva.

«Ma ci vuoi rovinare?» e scuoteva.

«Queste cose non le devi ripetere a nessuno!» e scuoteva.

«Ti prendono per pazzo! Ti rinchiudono! Ti mettono la camicia di forza!» e scuoteva.

Alla fine, mollò la presa e si accasciò su una sedia, con la testa tra le mani.

Lui, Nino, aveva voglia di vomitare; gli pareva d’essere in alto mare e di sentire lo sciabordio del liquido cerebrale nella scatola cranica.

Tuttavia, lo sapete come sono i ragazzi, era sbalordito, intontito, un po’ spaventato ma, pur nella drammaticità del momento, anche divertito dal fatto che le frasi di cui sopra il padre avrebbe voluto urlarle a squarciagola, invece era stato costretto a gridarle sotto voce, in parte perché lo shock gli aveva strozzato le corde vocali ma anche e soprattutto perché non voleva assolutamente che i vicini sentissero.

La madre, una donna piccola, minuta e pia cominciò a pregare sommessamente.

«Madonna benedetta, aiutaci tu; questa opera del demonio è! Gesù, Giuseppe e Maria siate la salvezza dell’anima mia; questo è satana che parla per bocca di questa creatura! San Michele Arcangelo, scaccia il demonio da questa casa! »

Ad un tratto, ebbe come una rivelazione divina e per un momento tacque poi, sempre con lo stesso tono cantilenante, riprese:

«Patre Pintacuda! Patre Pintacuda!» andava dicendo come in trance. «Ccà ci vuole patre Pintacuda!»

All’improvviso si riscosse, si alzò dalla poltrona in cui sedeva, corse all’attaccapanni dell’ingresso e in un attimo fu vestita di tutto punto: cappotto, cappello, sciarpa e borsa; pronta per uscire.

«Vado in chiesa» annunciò . «Il Signore mi ha suggerito la soluzione. Vado dal parroco.»

Nino si sentiva preso dai turchi; non riusciva a capire il perché di tutta quell’agitazione. Avrebbe voluto parlare, chiedere cosa avesse detto o fatto di male ma, infine, decise che era meglio tacere e lasciare che la faccenda facesse il suo corso.

La madre rientrò dopo circa un’ora, con l’aria di chi ha di riferire importanti e positive novità e fece un cenno al marito che, nel frattempo, era rimasto immobile e senza più un fiato, nella posizione sopra descritta.

A quel cenno, l’uomo parve destarsi, come la Bella Addormentata appena baciata dal suo principe; si alzò e seguì la moglie in cucina, dove i due cominciarono a parlottare fitto fitto. Nino aguzzò al massimo l’udito, riuscendo ad acchiappare qualche frase:

«domani mattina… appuntamento… padre Pintacuda… troppo impegnato… il parroco…. raccomandazione.»

Evidentemente, dedusse Nino, la mamma, tramite il parroco, era riuscita a ottenere un appuntamento con quel certo padre Pintacuda.

Ma chi era padre Pintacuda e come c’entrava questo tizio che non conosceva con quello ch’era successo? Forse era a lui che bisognava rivolgersi per ottenere quell’aiuto che aveva chiesto? Queste furono le domande che Nino pose a sé stesso, non osando rivolgerle ai genitori.

Quella sera, lo mandarono a letto presto perché la mattina dopo, dissero, lo avrebbero svegliato all’alba. Intanto, i suoi lo guardavano come un nemico da temere, almeno così gli parve, e non gli dettero neanche il bacio della buonanotte; ma non m’importava, aveva fatto una promessa e voleva mantenerla, a ogni costo.

Chi era padre Pintacuda Nino lo comprese pienamente qualche anno dopo perché, all’epoca, ovviamente, i suoi si guardarono bene dal dargli spiegazioni. Dunque, questo padre Pintacuda era un prete non più giovane ma non ancora vecchio, già in odore di santità, che esercitava il suo ministero in una chiesetta che sorgeva in un quartiere periferico del capoluogo. Eppure, da ogni parte della regione e anche da fuori, accorrevano a lui i familiari di coloro che, a torto o a ragione, venivano sospettati di essere posseduti: grandi bestemmiatori, ubriaconi cronici, ragazze con particolari pruriti, eretici che osavano sostenere che la Chiesa era solo un centro di potere e di affari. Questo prete, infatti, aveva fama di essere uno dei migliori esorcisti di Santa Madre Chiesa.

******

Quella mattina, Nino fu svegliato alle sei. Lui e i suoi si prepararono in tutta fretta e mezzora dopo erano pronti per partire alla volta della città. Il padre, la sera prima, anziché ricoverare la sua Fiat 1100 nel garage in affitto, posto a qualche centinaio di metri da casa , l’aveva parcheggiata proprio davanti al portone d’ingresso. Prima di dare il segnale di via libera, si affacciò due o tre volte e, solo quando fu sicuro che in strada non c’era nemmeno un cane, fece quel cenno che si vede fare al cinema, nei film di guerra, dai comandanti alla truppa, e che significa: “Seguitemi fino alla morte!”

Si precipitarono in macchina, tutti imbacuccati, anche se non faceva freddo, ma era per mimetizzarsi.

Il padre mise in moto con un tocco leggero leggero, come se così il motore potesse fare meno rumore, e partirono.

Per raggiungere la chiesetta, dal paese, a un autista appena discreto sarebbero bastati quaranta minuti. Loro impiegarono un’ora e mezza. Arrivarono intorno alle otto.

L’appuntamento con il ‘santo’ era per le otto e mezza; i suoi l’avevano ripetuto più volte durante il tragitto. Giunsero ch’era appena terminata la funzione mattutina e i pochi fedeli che vi avevano assistito, perlopiù anziane donne, stavano uscendo.

Nino e la mamma sedettero su uno dei primi banchi, mentre il padre si diresse in sagrestia, evidentemente, per annunciare il loro arrivo. Poco dopo, era di ritorno e sussurrò nell’orecchio della moglie:

«Tutto a posto. Tra poco ci chiamano».

Qualcuno suonava l’organo e quella melodia, unita alla penombra della chiesa deserta e all’odore forte dell’incenso e dei fiori, un po’ passati, che ornavano l’altare maggiore, creava atmosfere suggestive. Per ingannare il tempo, Ninuzzu si mise a osservare le antiche tele delle cappellette, la statua della Madonna Addolorata con il cuore in mano trafitto da due spade, i dipinti sulla volta, la statua di Gesù risorto nell’altare maggiore, i tetri e misteriosi confessionali in legno scuro e con le grate in ferro. Però, quello che lo colpì più di tutto fu l’iscrizione incisa, a grandi lettere, su un ampio arco sorretto da due colonne marmoree, proprio nel bel mezzo della chiesa: IN LOCO ISTO DABO PACEM.

Faceva la prima media e sapeva già quel tanto di latino sufficiente per tradurre quell’iscrizione: ‘In questo luogo darò la pace’. Proprio quello che gli aveva chiesto Rosalba e che lui aveva promesso di darle.

Quella scritta gli parve un messaggio di speranza apposta per lei, e gli dette la certezza che, proprio in quel luogo, avrebbe trovato il modo di aiutarla. Allora, per un attimo, si sentì sereno, pur nell’attesa ansiosa e ignara di ciò che lo aspettava.

«Il Signore sia con voi!» disse una voce gentile . Si voltò e lo vide. Era alto, pallido e magro come un chiodo, forse per i lunghi digiuni o per le estenuanti lotte col maligno, ma i suoi modi erano decisi, quasi autoritari, benché il viso, il sorriso e il tono della voce trasmettessero serenità.

«È questo il bambino?» chiese alla madre, mentre fissava Nino dritto negli occhi.

Poi fece cenno ai suoi di seguirlo in sagrestia. Dopo una decina di minuti, i genitori tornarono e dissero a Nino che padre Pintacuda voleva parlargli. Si leggeva sui lori volti un’evidente trepidazione che non fece che accrescere ancor più la sua.

La sagrestia era una grande stanza, arredata con mobili austeri in legno massiccio e, alla parete, di fronte all’ingresso, stava attaccato un enorme crocefisso, in tutto simile a quello del film ‘Marcellino pane e vino’, che Nino aveva visto l’estate passata al cinema all’aperto. Ebbe l’impressione che anche questo, da un momento all’altro, dovesse muoversi e parlare e persino scendere dalla croce.

Il prete era seduto su una sedia imponente, con l’alto schienale imbottito e rivestito in pelle bordeaux ormai screpolata dall’uso, posta davanti a una pesante scrivania scura, su cui erano poggiati un altro crocefisso, questo piccolo, di madreperla, e un grosso libro nero.

«Bacia il crocefisso!» gl’intimò e glielo lo mise davanti.

Nino si accorse che, mentre lo baciava, il prete lo osservava attentamente. Poi, gli fece cenno di sedere su una sedia di legno posta di fronte alla sua e cominciò a guardarlo fisso, senza parlare, mentre lui, per l’ovvio imbarazzo, diventava sempre più rosso e sudato e non sapeva dove volgere gli occhi per sottrarsi a quello sguardo indagatore che lo metteva in grande soggezione. Finalmente, dopo un tempo che al ragazzo parve interminabile, il prete gli chiese di raccontargli com’erano andate le cose.

Nino gli ripeté per filo e per segno quello che aveva detto ai suoi genitori e, mentre parlava, padre Pintacuda lo guardava dritto negli occhi, come se volesse penetrare dentro quelle pupille, all’apparenza innocenti e sincere, per scoprire se vi si nascondesse il Male.

Quando ebbe finito il racconto, il prete gli chiese di recitare alcune preghiere.

Nino stava frequentando il corso di catechismo, perché nel mese di giugno di quello stesso anno, un po’ in ritardo rispetto ai tempi canonici, avrebbe dovuto fare la prima comunione e la cresima, quindi, quanto a preghiere era abbastanza preparato. Cominciò a recitare l’Ave Maria, il Padre Nostro, la Salve Regina, il Credo, l’Atto di Dolore. Per tutto il tempo, Padre Pintacuda non gli tolse gli occhi di dosso. «Bene!» disse alla fine e gli fece un mezzo sorriso, cancellando quell’espressione arcigna e diffidente che aveva avuto fino ad allora. Poi, lo fece alzare e lo condusse sotto il grande crocefisso. Prese il grosso libro nero che stava sul piano della scrivania e, da un cassetto della stessa, trasse un aspersorio. Aprì il libro e lo invitò a leggere.

Nino obbedì e cominciò a leggere delle formule di cui, per la verità, non capiva bene il senso e che si concludevano tutte con la rituale domanda: ‘Rinunci?’ Lui doveva rispondere: ‘Rinuncio!’.

“Piripì e piripò…. Rinunci?” E Nino: “Rinuncio!” E padre Pintacuda lo aspergeva.

“Piripì e piripò…. Rinunci?” E Nino: “Rinuncio!” E padre Pintacuda lo aspergeva.

“Piripì e piripò…. Rinunci?” E Nino: “Rinuncio!”E padre Pintacuda lo aspergeva.

Alla fine, il bimbo era fradicio, bagnato come un pulcino e cominciò a starnutire a raffica. Era l’inizio del malanno che lo avrebbe afflitto nei giorni seguenti, con punte massime di 39,3 di febbre. Ma ora padre Pintacuda gli sorrideva a sorriso intero e lui si sentì rincuorare.

Tornarono a sedersi nella posizione di prima.

«Di’ la verità. Hai detto una bugia ai tuoi genitori per coprire qualche marachella?» e il prete gli strizzò l’occhio.

Nino si accalorò, rispose deciso di no, che non diceva bugie, che bisognava aiutare Rosalba e la sua famiglia. Glielo aveva promesso!

Allora padre Pintacuda si alzò, gli si pose accanto e parlò pacatamente. Gli disse che, a volte, può capitare alle persone particolarmente sensibili, come Nino doveva essere, che si vengono a trovare in un particolare stato emotivo, come Nino doveva trovarsi, di avere delle percezioni riguardo ad avvenimenti, specie drammatici, che debbono accadere o sono accaduti.

«L’importante» proseguì «è essere certi che queste sensazioni non siano ispirate dal maligno per i suoi intendimenti. Infatti, talvolta, i vivi credono di poter comunicare con i morti ma in realtà, non con i morti essi comunicano ma con gli spiriti malvagi, con i demoni che ingannano gli esseri umani con l’obiettivo di diffondere false verità. Ma questo, ora ne sono sicuro, non è il tuo caso. Comunque, con ogni probabilità, non avrai più di queste percezioni, perché raramente accade che si realizzino contemporaneamente, più di una volta nella vita, le condizioni che le hanno causate.»

Concluse questo bel discorso, di cui in realtà Nino non aveva capito molto, regalandogli quello che voleva essere un buffetto affettuoso e che invece, a causa della sua mano ossuta ed energica, si abbatté sul ragazzo percepì con la stessa energia di uno scapaccione.

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