“Il Siciliano” è un romanzo di Mario Puzo, scritto in inglese e pubblicato nell’anno 1984 dalla casa editrice Dall’Oglio.
Mario Puzo, giornalista, scrittore e sceneggiatore statunitense, nato a New York nel 1920, da famiglia di origini italiane, è famosissimo per il romanzo “Il Padrino”, da cui il regista Francis Ford Coppola trasse l’ancora più noto film, che racconta l’ascesa al potere mafioso dell’italo americano don Vito Corleone e la saga della sua famiglia.
Ne “Il Siciliano”, vicenda che si svolge tra il 1943 e il 1950, l’autore, riallacciandosi alle vicende narrate ne “Il Padrino” racconta il romanzesco tentativo di far espatriare negli Stati Uniti il famoso bandito Salvatore Giuliano.
Il primo personaggio che compare nel romanzo è Michael Corleone, il figlio minore di don Vito, il potente padrino “il cui potere dall’America arrivava fino alla Sicilia”; quel figlio, eroe di guerra, che avrebbe voluto una vita diversa e che, invece, gli avvenimenti avevano trascinato per i capelli a doversi occupare degli affari mafiosi della famiglia, costringendolo, per proteggere il padre, ad uccidere un potente rivale di don Vito e un capitano di polizia che lo spalleggiava. Mandato in Sicilia, per nascondersi e sfuggire alla vendetta dei rivali e alla giustizia, per Michael, dopo un esilio durato ben due anni, è arrivato il momento di tornare in patria per prendere il posto, che gli è stato destinato, alla destra del padre. Quando, però, sembra tutto pronto per la partenza, arriva l’ordine di don Vito di portare con sé, negli Stati Uniti, Salvatore Giuliano la cui stella, dopo sette anni di ascesa, è ormai al tramonto. Nell’impresa, sarà aiutato, oltre che dai suoi uomini, anche da don Croce Malo, il capo dei capi, con agganci potentissimi a Roma, di quella che i giornali e il mondo esterno chiamavano “mafia” e il cittadino comune “ amici degli amici”, perché in Sicilia la parola mafia non va pronunciata. Così Michael, si viene a trovare avviluppato in un’intricata matassa della quale, lui Americano, sia pure di origine siciliana e sia pure appartenente ad una famiglia mafiosa, non riesce a capire dove sia il bandolo. Non capisce, per esempio, perché il padre tenga tanto ad aiutare questo bandito né perché ci tenga don Croce Malo, di cui Giuliano è nemico giurato, ma che si vanta del fatto che senza la sua protezione Giuliano non avrebbe potuto sopravvivere. Tantomeno Michael comprende perché, a quest’impresa, presti il suo consenso l’ispettore Velardi, capo delle forze dell’ordine in Sicilia o perché criminali efferati e ricercati, quali Stefano Andolini e Gaspare Pisciotta, possano andarsene tranquillamente in giro, esibendo un lasciapassare che solo il Ministero di Roma può rilasciare. Solo dopo saprà che Salvatore Giuliano ha scritto un testamento da cui risultano i suoi legami col potere politico e religioso, che se pubblicato, sarebbe in grado di determinare un terremoto.
Partendo da questa premessa, l’autore ripercorre, tra storia e leggenda, la vita, l’ascesa alle stelle e la fine nella polvere di Salvatore Giuliano, un giovane contadino costretto a diventare bandito per aver ucciso un carabiniere, dopo che, sorpreso a trasportare una forma di formaggio di contrabbando, i militari gli avevano dapprima sparato, ferendolo gravemente, e poi cercato di finirlo, sol perché si era dato alla fuga, abbandonando la merce. Da quel momento, Giuliano, non avrà altra scelta che fuggire tra i monti che egli conosce così bene e iniziare la sua vita di bandito. Fin dal primo momento, gli staranno a fianco il cugino Gaspare Pisciotta che lo ama, ricambiato, come un fratello e Ettore Adonis, un professore universitario di Palermo, suo padrino ed educatore nonché amico di famiglia. Tra quei monti Giuliano saprà costituire una banda di fedelissimi che, aiutata dalla popolazione locale, che vede in Giuliano il proprio paladino contro i soprusi della mafia e le oppressioni del potere politico, per sette lunghi anni, compirà imprese che faranno entrare il giovane nella leggenda e considerare, nel sentire popolare, un eroe.
Mario Puzo racconterà le sue gesta audaci e le sue capacità di stratega che gli consentiranno di tener testa, per ben sette anni, alle migliaia di carabinieri che gli daranno la caccia e di cui si farà beffe, assaltandone le caserme e rubando le loro armi e munizioni; racconterà i sequestri dei nobili ricchi, facendosi beffe, in questo caso, della mafia che li protegge; racconterà dei lauti riscatti che quelli pagheranno per essere liberati e che Giuliano distribuirà, in gran parte, ai poveri; racconterà del suo orgoglio, che gli farà ritenere di essere imprendibile, invincibile e addirittura immortale e che crescerà ad ogni nuova impresa, di pari passo con la ferocia dei suoi atti criminali nei confronti dei rappresentanti delle istituzioni e degli esponenti mafiosi, senza che ciò valga ad alienargli il favore popolare; racconterà della sua adesione al movimento separatista sorto nell’isola e della sua avversione verso i partiti di sinistra che egli detesta, perché predicano contro la Chiesa e disprezzano i tradizionali legami della famiglia sicula; racconterà la strage di Portella della Ginestra che il governo e la mafia tenteranno di attribuirgli senza però riuscirci, perché il popolo non crederà che Salvatore possa aver aperto il fuoco contro amici e parenti e contro quei poveri che egli ha sempre protetto; racconterà, infine, del tradimento dell’amico fraterno Pisciotta e della sua uccisione, attenendosi all’ipotesi che sia avvenuta per mano dell’amico traditore mentre la versione ufficiale, mistificando la realtà, parlerà di un conflitto a fuoco nel corso del quale militari dell’Arma lo avranno ucciso.
In definitiva, Mario Puzo si mantiene fedele alla versione popolare che vede in Salvatore Giuliano un Robin Hood siciliano, che lotta contro le oppressioni del suo popolo, che ruba ai ricchi per donare ai poveri, che crede in un Sicilia finalmente libera dal potere di Roma e più ancora dal potere della mafia che Mussolini aveva decimato, mandando al confine o incarcerando i suoi esponenti e che, dopo la caduta del regime “nei pochi mesi di ripristinata libertà, essa aveva cominciato a estendere la sua testa di serpe sull’intero territorio, che appariva come fertilizzato dal terriccio fresco di un nuovo governo democratico”.
Quelli che seguono sono alcuni passi del romanzo che valgono ad accreditare la figura di un Salvatore Giuliano animato da sete di giustizia e libertà.
“Perché mai si è sempre occupato dei guai degli altri, questo mio figlio? Perché battersi per un uomo che non conosceva nemmeno, per uno licenziato perché aveva rifiutato una paga troppo bassa? Che c’entrava lui con questo? Lui sempre idee grandi ha avuto, sempre un gran parlare di giustizia ha fatto, quando invece un siciliano autentico di pane parla”. Così l’autore farà parlare il padre di Salvatore che, da contadino concreto, sa che non ci si nutre di grandi valori e ideali ma di pane.
“E poi ditemi, caro padrino: non eravate voi, quando ero bambino a parlarmi dell’esistenza miserabile del contadino siciliano? Dell’oppressione che gli è sempre toccata da parte di Roma e dei suoi esattori, della nobiltà, dei ricchi possidenti che ancora oggi pagano il nostro sudore quel tanto che basta a non crepare?... Chi sarà allora il difensore della Sicilia, se non Salvatore Giuliano?”Questo dirà Giuliano al suo padrino Ettore Adonis che cercherà di metterlo in guardia dai pericoli che corre.
“Il suo scopo non era di sopravvivere ma di diventare una forza politica. Perciò la sua banda non avrebbe rubato ai poveri, ma anzi avrebbe distribuito loro la metà dei profitti ai bisognosi della zona …” Questo il discorso che Giuliano farà ai capi della sua banda.
Al di là della trama, pur appassionante, ciò che più colpisce in questo romanzo sono le sensazioni che rimangono al lettore giunto alla fine: sorpresa e amarezza.
Sorprende che uno scrittore statunitense, sia pure di origine italiana, abbia saputo descrivere così bene il territorio in cui si svolgono i fatti, la condizione e il sentimento del contadino siciliano nell’immediato dopo guerra e la realtà della mafia di allora.
Il contadino dei paesi più poveri della Sicilia, quelli citati nel romanzo, Montelepre (affondato nella valle sovrastata dal monte Cammarata altrettanto profondamente che nella povertà), San Giuseppe Iato, Partinico, Piana degli Albanesi, Corleone, che costituisce la maggior parte della popolazione, si sente stritolato dal potere di Roma, da una parte, e da quello mafioso dall’altro ed ha come massima aspirazione la conquista di un pezzo di terra, se non ce l’ha e la libertà di godere dei frutti del duro lavoro di essa, se la possiede; invece, si vede costretto a non poter usufruire delle leggi agrarie che stabiliscono che i terreni incolti dei latifondi possano essere reclamati dagli agricoltori, previo esborso di una somma minima, perché i ricchi che ne sono proprietari chiedono protezione alla mafia e “nessun contadino osava farsi avanti a reclamare del terreno. I pochi che lo facevano, erano invariabilmente segnati e finivano uccisi insieme con tutti i maschi della famiglia … Roma, insomma, poteva farne cento di leggi agrarie: in Sicilia, non contavano ” e a non poter disporre dei prodotti della sua terra perché il governo gli impone di versarli all’ammasso “a prezzo fisso e in cambio di banconote praticamente senza valore” perché, in teoria, dovrebbero essere venduti a basso prezzo “in modo che tutti avessero il minimo indispensabile” mentre, in pratica, finivano nelle mani di don Croce e dei suoi sindaci per essere venduti alla borsa nera. Solo per questa situazione e non per convinzione ideologica, le masse popolari siciliane, alle elezioni regionali dell’aprile ’47 votano in massa i partiti di sinistra che promettono la ridistribuzione delle terre, determinando la disfatta del partito di governo, la Democrazia Cristiana.
Quanto alla mafia dell’epoca, la sua essenza nel romanzo è incarnata da don Croce, il suo capintesta che l’ha rigenerata dopo la caduta del regime, collaborando con il governo militare americano della Sicilia, raccomandando, per la nomina a sindaco delle cittadine siciliane, i suoi capi-mafia “che erano stati torturati e imprigionati dal governo fascista per resistenza alle leggi dello stato”, e che egli dipinge “come eroi irriducibili della fede nei principi democratici di giustizia e libertà” e che ora “sotto la grandine benefica della democrazia restaurata dagli americani, s’erano levati come lombrichi dalla terra franta dalla pioggia e avevano ripreso le antiche abitudini”. Don Croce ha, inoltre, agganci potentissimi a Roma e l’autore ce lo presenta come ragionevole, astuto, diplomatico nato, un uomo che sembra non avere debolezze umane e che non mostra mai ira né cupidigia; tutte doti che ne fanno il capo riconosciuto “degli amici degli amici” e, come tale “gli competeva di giudicare le dispute più accanite fra le cosche mafiose rivali e di por fine alle più feroci vendette”. Quanto diverso, seppure non meno spietato, questo capo della vecchia mafia, che governa con astuzia e diplomazia, da quello che diventerà il capo dei capi della nuova mafia rappresentata dai feroci Corleonesi di Totò Riina che dialogheranno a colpi di mitra e tenteranno di venire a patti con lo Stato a suon di attentati dinamitardi! E quanto diverso, anche, il rapporto tra popolazione e mafia di allora! Lo coglie perfettamente lo scrittore narrando l’episodio in cui cinquemila contadini, presentatisi davanti al cancello del palazzo del principe Ollorto, per reclamare i centomila ettari di terra che egli teneva a maggese, non hanno il coraggio di farsi avanti perché il principe ha assoldato sei temuti capi-mafia, che si limitano a cavalcare attorno al muro di cinta della proprietà. Giuliano accorso in loro aiuto, prova rabbia “per quella medesima moltitudine che stava aiutando. Perché essere così docili, così intimoriti?” si chiede. Il perché lo spiega lo scrittore: “Non era solo paura: i capi-mafia erano «uomini di rispetto», i legislatori delle località in cui vivevano … avevano infatti stabilito un loro governo-ombra che funzionava con efficienza superiore a quella del governo di Roma. C’era un ladro o qualcuno che rubava bestiame e pecore? Denunciare il furto ai carabinieri non faceva recuperare il perduto: rivolgersi ai capi-mafia significava invece ritrovare, previo esborso del venti per cento, il bestiame rubato e ricevere garanzia che la cosa non si sarebbe ripetuta. E se un prepotente si scaldava tanto da ammazzare un lavoratore innocente durante una lite da osteria, le autorità potevano raramente ottenere una condanna, perché intervenivano testimoni falsi e la legge dell’omertà. Ma, se la famiglia della vittima si rivolgeva a uno di quei sei «uomini di rispetto», poteva ottenere vendetta e giustizia. Così, nelle zone povere, i ladruncoli abituali finivano giustiziati, le faide risolte con onore, le dispute in materia di confini di proprietà composte senza spese legali. I sei uomini di rispetto erano giudici dal verdetto inappellabile … I sei, insomma, godevano in Sicilia di un potere assoluto”. E dunque, quella di allora era una mafia che si sostituiva allo Stato e che poteva prosperare proprio perché il potere dello Stato in quelle terre era inefficiente.
Ho detto prima delle sensazioni che rimangano a fine lettura; la sorpresa, di cui ho spiegato i motivi e l’amarezza. Perché l’amarezza? Perché, giunti alla fine del romanzo, se ci si ferma a riflettere, ci rendiamo conto di come sia illusoria la nostra convinzione di essere liberi e padroni della nostra vita. Giuliano si credeva invincibile, quasi immortale, pensava di poter diventare il padrone della Sicilia e cambiare le sorti di questa terra martoriata e delle popolazioni oppresse e non si rendeva conto che altro non era se non un burattino nelle mani dei poteri forti che lo manipolavano e lo usavano per i loro fini. “Turi Giuliano non avrebbe potuto sopravvivere senza la mia protezione” dirà don Croce a Michael Corleone e, al potente politico, rappresentante della Democrazia Cristiana, che egli sostiene “Turi Giuliano è più prezioso per noi se resta vivo e continua a compiere le sue eroiche gesta in montagna … Se voi gli mandate contro i vostri mille carabinieri e il vostro esercito e questi falliscono, accadrà che Giuliano potrebbe decidere di aiutare le sinistre, alle prossime elezioni”. E così Giuliano che si crede padrone del suo destino, inconsapevolmente, è uno strumento nelle mani di mafia e governo, proprio quei poteri che odia e vuole abbattere e che, invece, tramano alle sue spalle.
E non è questa la sorte di tutti noi che pensiamo di poter disporre liberamente della nostra vita e non ci rendiamo conto che essa è, invece, nelle mani di chi detiene le chiavi della stanza dei bottoni? Così, ci può accadere di recarci un giorno alla stazione, per prendere il treno che ci porterà sul posto di lavoro, e di saltare in aria perché poteri occulti hanno deciso che una strage di innocenti serve ai loro scopi oppure di prendere un aereo ed essere abbattuti in volo, per gli stessi motivi o, ancora, di essere un servitore dello Stato ed essere uccisi da un’autobomba piazzata sotto casa o lungo un’autostrada, perché i burattinai hanno deciso di utilizzare la nostra vita come merce di scambio. E quel che è peggio è che nessuno saprà mai chi e perché. Ci sarà il segreto di Stato, ci saranno depistaggi, daranno la colpa ai neri, ai rossi, ai verdi, agli arcobaleno, ai servizi segreti, alla massoneria, alle potenze straniere e magari qualcuno di loro sarà stato l’autore materiale, ma chi il mandante? Non lo sapremo mai, come non si saprà mai la verità sulla vita e, soprattutto, sulla morte di Salvatore Giuliano, giovane contadino che s’illudeva di essere burattinaio ed era, invece, burattino. E, se ci fermassimo a riflettere un attimo, potremmo accorgerci che tutti noi siamo legati a dei fili mossi da una mano invisibile che, da un momento all’altro, potrebbe decidere di reciderli per i suoi interessi, e acquistare la consapevolezza che, mentre crediamo di vivere in un mondo reale, viviamo in una realtà virtuale, simile a quella di Matrix, solo che a crearla e a governarla non è un’intelligenza artificiale ma quelli che chiamiamo “poteri occulti”, che dispongono delle nostre vite e che, nell’ombra, tessono ragnatele, gestiscono affari illeciti, intrecciano accordi segreti, e che, da un momento all’altro, potrebbero decidere di pigiare un bottone e boomm!!!
Per concludere, voglio mettere in risalto l’ottima traduzione di Gianni Pilone Colombo, per rendere merito alla figura del traduttore, spesso trascurata ma dalla cui bravura dipende, in buona parte, il successo di un romanzo straniero.
Michele Zoppardo
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