Prefazione
Questo racconto è un’opera di pura fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni e situazioni, sono stati creati dall’immaginazione dell’autore, senza alcun riferimento alla realtà. Qualsiasi somiglianza con avvenimenti reali o inventati, luoghi e persone, vive o morte, è del tutto casuale.
Spulciando alcuni vecchi quotidiani locali, per una mia ricerca, mi sono imbattuto in due articoletti, scritti verso la fine degli anni ‘60, di nessuna importanza ma divertenti e significativi come testimonianza del fatto che, in posti diversi, uno nella Sicilia occidentale, l’altro in quella orientale, uno sul mare, l’altro nell’entroterra, possono accadere avvenimenti talmente simili da sembrare orchestrati da un regista comune. Curioso come sono, ho deciso di recarmi sul posto, anzi sui posti, per raccogliere testimonianze dirette da chi ne è stato protagonista o testimone (anche se oramai, dato il tempo trascorso sono rimaste solo labili tracce) e le storie che racconto di seguito ne sono il risultato e la dimostrazione di come sia difficile governare e di come, al contrario, sia facile criticare qualunque decisione venga presa da chi amministra, senza con ciò voler ergermi a difensore degli amministratori né a critico degli oppositori.
LA TERRAZZA SUL MARE
C’era un punto in cui la bella strada costiera che correva verso il capoluogo, attraversando il territorio di numerosi e pittoreschi comuni, era abbellita da un’ampia terrazza panoramica che si protendeva sul mare. Tutto intorno, la terrazza era delimitata da artistiche panchine rivestite da mosaici composti di tassellini colorati che, alla luce del sole, emanavano bagliori iridescenti. Oleandri variopinti creavano suggestive macchie di colore. Di giorno, le panchine erano sempre occupate da giovani donne che, mentre chiacchieravano, dondolavano le carrozzine o allattavano i bimbi più piccoli, condotti là per respirare l’aria di mare “che fa tanto bene ai polmoni” e, nello stesso tempo, tenevano d’occhio quelli più grandicelli che giocavano, schiamazzavano allegramente, si rincorrevano e spesso capitombolavano, spiaccicando sul pavimento il cono gelato appena leccato.
Chi avesse voluto sedere su quelle panchine di pomeriggio, le avrebbe trovate ancora occupate; questa volta dai giovani, che arrivavano con i motorini, si sedevano a cavalcioni sulle spalliere, perché faceva tanto trasgressivo, cantavano le canzoni in voga, accompagnandosi con le chitarre, o discutevano di come andava cambiato il mondo e, intanto, leccavano grossi gelati.
Chi, non avendovi trovato posto la mattina né il pomeriggio, avesse voluto tentare la fortuna di sera, avrebbe trovato le panchine ugualmente occupate. In questo momento della giornata, infatti, era il turno delle coppiette che si scambiavano calorose e ostentate effusioni, tra il disappunto delle persone anziane e, tra un bacio e l’altro e una toccata e l’altra, si rinfrescavano la gola con enormi gelati di tutti i gusti.
Si diceva che il titolare del chiosco di gelati, situato subito all’imbocco del belvedere, fosse diventato milionario.
I bene informati dicevano anche che avesse ottenuto quella licenza di commercio, prima negata ad altri, grazie all’interessamento di don Tano Cuntrera il quale, per perorare la causa del suo protetto, si era scomodato a recarsi personalmente e in gran segreto nell’ufficio del sindaco e gli aveva sussurrato poche frasi all’orecchio. Tuttavia, qualche impiegato, che aveva avuto l’ardire di mettersi a origliare durante il colloquio, era riuscito a carpire alcune parole: “...i voti che hai avuto grazie a mia…; alle prossime elezioni tu po’ scurdari…; ti levu a poltrona di sinnacu da sutta u culu…; torni a fari u carnezziere!”.
Quella mattina stessa, il sindaco volle firmare, di suo pugno, la licenza di commercio che consentiva, di fatto, l’inizio dell’attività del chiosco.
Al centro della terrazza si trovava una fontana, che raffigurava una donna dalle forme abbondanti e le poppe al vento. Da una grossa anfora, versava acqua su grassi putti nudi che la circondavano con le bocche spalancate. Da quelle bocche carnose, l’acqua si riversava poi nella vasca. Nelle intenzioni dell’artista che l’aveva progettata, voleva essere l’allegoria della “Grande Madre Terra” che disseta i suoi figli.
Al sindaco era sembrata una gran bella idea perché, di sicuro, non avrebbe potuto dar luogo a critiche di carattere politico. In realtà, da subito dopo l’inaugurazione, si era ritrovato a maledire con tutto il cuore il momento in cui aveva preso la decisione di far progettare e collocare là quella fonte. I benpensanti di aria cattolica, infatti, avevano fatto una levata di scudi, asserendo che quella fontana era un’oscenità posta davanti agli occhi della gente perbene e, soprattutto, davanti agli occhi innocenti e puri dei bambini.
«Quella fimmina cu tutti i minni di fora; chi vergogna, chi schifiu!»
«E pirchì, quei picciriddi cu tuttu u batacchiu ca ci va pinnennu? Ma unni semu arrivati?!»
«Ma quali grande matri ca disseta i figghi! L’acqua dal cielo veni, no dalla terra!»
I consiglieri dell’opposizione organizzarono un sit-in di protesta, distribuendo volantini che incitavano i paesani a ribellarsi e a chiedere la rimozione della fontana della vergogna, propagandata dal sindaco come opera d’arte e che altro non era se non un’opera che offendeva il comune sentimento del pudore e corrompeva l’etica dei minorenni. Vennero perfino allestiti banchi per la raccolta delle firme da parte della popolazione.
«Ma quale opera d’arte! Lo volete sapere chi è l’artista? Peppino Sposito è!»
«Ma chi lo scalpellino, quello che scolpisce le lapidi del camposanto?»
«Sì, sì, proprio lui!»
« Alla faccia dell’artista!»
Quando lo seppe, il sindaco fu preso da un attacco di collera. Si tolse la coppola dal capo, la buttò per terra e cominciò a calpestarla, così come avrebbe voluto fare con chi aveva mosso quelle critiche assurde. Poi, la raccattò e voleva mangiarsela. Per fortuna due suoi fedelissimi glielo impedirono.
«Sindaco, ma chi ti voi manciari a coppula tutta stricata in terra? Avi a essiri china di microbi. Qualchi infezioni ti pò veniri!»
«Ma sti curnutazzi!» esclamò il sindaco, paonazzo in volto. «Ma è possibile ca qualunque cosa si fa, hannu a criticari. Ma comu? Semu in un’epoca ca ‘un si capisci chiù nenti; fimmini chi parinu masculi, masculi chi parinu fimmini. A mari si vidinu fimmini e masculi nudi, con le minne e i batacchi di fora, quelli veri però no di petra, e chisti scassanu i cabbasisi pi ‘na statua ca è puru un’allergia! Gnoranti fitusi!»
«Semmai un’allegoria» precisò uno dei due fedelissimi.
Il sindaco neppure lo sentì perché, colpito da un attacco epilettico, come gli accadeva spesso quando gli facevano travasare bile, si era sdraiato per terra, dove aveva preso a dimenarsi come un tarantolato.
Quando si riprese, siccome era un uomo dalle mille risorse, pensò, per vendicarsi, di fare scrivere al segretario un cartello anonimo che diceva: “Chi critica questa fontana sappi che la fimmina con le minne di fora è la rappresentazione precisa della buttanazza di so soru mentre il batacchino dei picciriddi è la rappresentazione in scala reale di quello suo, che ci serve solo per pisciare”. La notte seguente andò egli stesso ad apporlo vicino alla fontana. Quando gli oppositori lo accusarono di essere l’artefice di quel cartello ingiurioso, il sindaco dichiarò solennemente che mai si sarebbe abbassato a un’azione tanto ignobile e minacciò querele nei confronti dei detrattori.
IL PARCO
Il parco pubblico era l’orgoglio di quel piccolo paese dell’entroterra siciliano, per la bellezza e la varietà di piante, fiorite e non, che vi si trovavano, tanto da poter competere con un orto botanico; ma mentre per accedere all’orto botanico c’è un biglietto da pagare, chiunque poteva godere della frescura di quel parco, dei colori e del profumo dei suoi fiori, senza pagare una lira.
C’era poi una bella fontana, da cui prorompevano alti getti d’acqua verso il cielo; cosa che, a dire la verità, era stata fonte di accese dispute in consiglio comunale e di grossi grattacapi per il sindaco che, alla fine, vi aveva fatto affiggere accanto un grande cartello in cui si spiegava come e perché quell’acqua che sgorgava non fosse acqua sottratta ai compaesani; in primis, perché non era acqua potabile; poi, perché la fontana era provvista di un sistema idraulico che consentiva il recupero e la rimessa in circolo dell’acqua erogata.
Tale precisazione si era resa necessaria perché il primo cittadino era stato aspramente criticato dagli avversari politici, che avevano sobillato la cittadinanza col dire che tutta quell’acqua sprecata era uno schiaffo in faccia alla gente che, per avere l’acqua corrente in casa, doveva aspettare i giorni e le ore di razionamento e magari era costretta a vegliare di notte per poter fare un po’ di provvista.
«Sti curnutazzi» aveva commentato il sindaco col suo vice, «non hanno niente chi fari e ‘un sannu comu passari a jurnata. Ma come? dico io, un critianu si danna, si dà da fari, s’arramazza, perdi macari il sonno, per pensare a comu fari qualchi cosa di buono pi stu paisi di mmerda e sti curnuti e curnutazzi, inveci di andare a futtiri quelle buttanazze delle loro mugghieri, che poi per forza debbono addiventari buttane, picchì restano insoddisfatte, vanno a cercari sempri u pilu nell’uovo per scassarimi la vuallera a mia.»
Così, facendo apporre quel cartello, il sindaco pensava di aver tagliato la testa al toro. Mai si sarebbe aspettato che i suoi avversari lo avrebbero ancor più criticato, dicendo che, anziché in costosi e inutili marchingegni, i soldi dei contribuenti potevano essere spesi meglio.
«A cosa serve quella fontana zampillante? A chi giova?» aveva tuonato, in consiglio comunale, il consigliere dell’opposizione.
«Il nostro, un paese turistico è? Ma quannu mai! Ccà i turisti non ci vengono manco se si sperdono.»
Per sua fortuna, il sindaco aveva dalla sua la popolazione, che apprezzava quella frescura che la fontana regalava, specie nei periodi più caldi. Fu così che, alla faccia delle opposizioni, il sindaco poté rimanere in carica per più mandati.
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