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PERCHÉ IL DIALETTO NEI MIEI ROMANZI?

La lingua italiana è per noi una lingua imparata a scuola, come possono essere il latino, il francese, l’esperanto. La lingua italiana è per noi una lingua straniera, una lingua morta, una lingua il cui dizionario, la cui grammatica si sono formati senza alcun rapporto con noi, col nostro modo di agire, col nostro modo di pensare, col nostro modo di esprimerci. – omissis – La lingua italiana nel ricevere e formulare i nostri pensieri non può fare a meno di storpiarli, di corromperli, di dare ad essi l’apparenza di una traduzione. Ma, per esprimersi direttamente, l’uomo non dovrebbe tradurre. Se è vero che, per esprimersi bene in lingua, bisogna prima imparare a pensare in essa, lo sforzo che a noi costa il parlare in questo italiano significa evidentemente che noi non sappiamo pensare in esso (che questa cultura italiana è rimasta per noi una cultura di scuola).”

Quello sopra riportato è un passo tratto dalla prefazione al bellissimo romanzo “Fontamara” di Ignazio Silone, che ben rende l’idea di come, specie in certe regioni e specie in anni passati, il dialetto è/era, in realtà, la lingua ufficiale mentre l’italiano è “la lingua che s’impara a scuola”, quasi una lingua straniera che mai, neppure se intervenisse il migliore dei traduttori, saprebbe rendere la vera essenza di certe espressioni dialettali.

Penso che sia da tutti condivisibile l’opinione che è l’ambiente in cui si vive che, in gran parte, forma l’uomo (e naturalmente, anche la donna); pertanto, nel momento in cui mi sono accinto a scrivere il mio primo romanzo, mi sono detto che, se questo è vero, ogni personaggio, per essere credibile, deve essere necessariamente calato nel suo ambiente. Di conseguenza, mi sono chiesto se sia attendibile un personaggio, nato e cresciuto in un quartiere popolare di Palermo (lo stesso vale per Napoli, Bari, Roma, Milano, etc.) che si esprima in perfetto italiano come un accademico della Crusca e mi sono risposto di no. A quel punto, mi sono sorti mille dubbi sul da farsi. Scrivere il romanzo in dialetto, sulla scia di Andrea Camilleri che, in questo senso, ha aperto la strada? Ma Camilleri ha avuto la fortuna di far arrivare i suoi romanzi al grande pubblico grazie alla televisione, non accessibile a tutti. I lettori, avrebbero gradito il romanzo di un autore sconosciuto, scritto interamente in dialetto? Probabilmente no; sarebbero partiti già prevenuti, pensando ai problemi di comprensibilità. Allora, affiancare alla stesura dialettale una traduzione? Forse, sarebbe stata letta solo quest’ultima, penalizzando la prima. Ho deciso, infine, di narrare l’intero romanzo in italiano, riservando il dialetto, peraltro il più possibile “italianizzato” per renderlo comprensibile, ai soli dialoghi, allo scopo di salvaguardare la genuinità, l’efficacia e, in taluni casi, la comicità di espressioni caratteristiche, che andrebbero perse se rese in lingua.

IMMAGINE TRATTA DALLA PAGINA FACEBOOK CARRETTI SICILIANI

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