Capitolo V – La colpa e il pentimento
Nuccio Aiello giunse in Sicilia la mattina del 9 ottobre 1973, dopo aver attraversato l’Italia a tappe, facendo visita ai vari clienti, sparsi un po’ ovunque.
Sbarcato sull’isola, si recò per affari a Messina, Catania, Cefalù, Palermo e, alle ore sedici e trenta, minuto più minuto meno, entrò nel laboratorio artigianale orafo di Salvatore Calì.
«A bellezza di don Sasà!» esordì il sensale.
La vista di quell’individuo generava sempre in Calì un senso di profondo fastidio, che non riusciva neppure a dissimulare e anche in quell’occasione, quando vide comparire il sensale, don Sasà si rabbuiò in volto. Nuccio non se ne dette per inteso e continuò col suo tono spassoso:
«Iamme ‘on Sasà, faciteme nu bello sorriso. Sono venuto a proporvi un affare che vi può cambiare la vita».
«Aiello, li conosco bene i vostri affari e sapete che non mi interessano.»
«Don Sasà bello, ma perché mi trattate così? Io vi vengo a cercare perché voi siete il più bravo orefice che conosco. Voi,‘on Sasà, siete un artista che non viene apprezzato per come meritate; ve lo dico io che me n’intendo. L’ho visto come lavorate. Li ho visti i disegni che avete nel cassetto e che non potete realizzare perché ora i grandi marchi vanno a cercare… aspietta, come li chiamano? i designer; ecco, i designer! ‘On Sasà, ma quale designer e designer, voi un artista siete, credete a me. E poi,‘on Sasà, o’ sapete come sono le voci: volano nell’aria, si rincorrono, si fanno trasportare dal vento e alla fine che fanno? Arrivano all’orecchio di Nuccio. A me, per esempio, mi è arrivata la voce che gli affari vostri non girano e che siete in difficoltà. Iamme ‘on Sasà, quanto vi prego, state almeno a sentire quello che ho da proporvi; poi decidete, senza fretta. L’affare che sono venuto a proporvi è pulito e o guadagno è buono, comme nu babbà alla panna.» E giù una bella risata in faccia a don Sasà che giudicava quel modo di fare terribilmente irritante. Decise però di fare buon viso a cattiva sorte.
«E va bene! Sentiamo quest’affare che mi volete proporre ma accomodatevi di là» cedette don Sasà. Fece entrare il sensale nel retrobottega del laboratorio, dove c’era un tavolo ingombro di bustine, bilancini di precisione, lenti di ingrandimento, bulini e attrezzi vari. Appena seduti, Aiello riprese il discorso interrotto.
«Dunque ‘on Sasà, per ora, ragioniamo per ipotèsi. Mettimme che io vi dico: questi sono i pezzi che debbono essere lavorati» e tirò, fuori e gli mostrò alcune foto della preziosa parure consegnatagli qualche giorno prima dal cliente di Milano. «Oggetti puliti ‘on Sasà, ve lo garantisco!» Poi, notata l’occhiata diffidente del suo interlocutore, si affrettò a precisare: «Beh, quasi. Sentite, ve lo confido come a un fratello. Hanno fatto qualche intrallazzo alla dogana… cose e niente… imbruogli fiscali che tutt’al più possono interessare la guardia di finanza». Quindi, incoraggiato dal fatto che Calì non fiatava, continuò. «Dunque, per ritornare all’ipotèsi. Mettiamo che io vi dico pure… Aspettate ‘on Sasà.» Aprì la valigetta del campionario che si portava sempre appresso, ne tolse il fondo e, dal capiente vano sottostante, estrasse mucchietti di banconote da centomila lire che, sotto lo sguardo stupito di Salvatore Calì, depose in bell’ordine sul tavolo che avevano davanti.
«‘On Sasà, questi sono quattro milioni e dico quattro. E sono solo l’anticipo perché, a lavoro finito, io vi spiattellerei, sempre per ipotèsi, con queste istesse mani e su questo istesso tavolo, altri quattro milioni belli freschi freschi. Dunque, mettiamo ancora che io vi dico: ‘On Sasà questi sono tutti vostri. Capite ‘on Sasà? Otto milioni, per un lavoretto facile facile, dove voi siete maestro: fondere un po’ d’oro, tagliare le pietre che si possono tagliare e creare gioielli nuovi. ‘On Sasà, tirate fuori quei bellissimi disegni che una volta mi avete mostrato e che fanno la muffa nel cassetto.»
Quando poi don Sasà, adeguatamente lusingato, si decise a tirar fuori i tanti progetti che aveva provato a mandare a diversi dei marchi più prestigiosi di gioielleria, senza che nessuno lo degnasse di una risposta seppure negativa, Nuccio capì di aver provocato una falla nelle difese nemiche e che era il momento di insistere.
«Guardate ccà! Guardate ccà!» esclamò più volte, con tono di ammirazione. «Ma questi capolavori so’! ‘On Sasà, questi so’ opere d’arte! E vuie ve ne state qua a riparare e gancini rutti delle collanine, e mmaglie dei bracciali, e cinghiette degli orologi. Guardate ccà, ma che peccato! Tutti questi progetti rimasti irrealizzati! ‘On Sasà, date retta a me, voi meritate assai e non vi siete fatto valere il giusto. ‘On Sasà, io vi sto offrendo l’occasione per mettere a frutto il vostro talento ma, badate bene, non vi voglio obbligare in niente. Voi pensateci; io mi vado a prendere un caffè al bar e diciamo… tra dieci minuti, un quarto d’ora, torno e voi mi dite se le ipotèsi che abbiamo fatto fino a mo’ le possiamo concretizzare.»
Detto questo, Nuccio si alzò e si avviò verso l’uscita.
«Aiello!» gli gridò dietro don Sasà. «Ma dove andate? E tutti sti piccioli me li lasciate qua?»
«‘On Sasà, ma che diamine! Io di voi mi fido ciecamente» rispose il sensale. «Però mi raccomando, metteteli nella cassaforte. Con tutti i mariuoli che girano al giorno d’oggi, non si sa mai!»
Don Sasà rimase lì come un allocco, con tutti quei soldi davanti e con mille pensieri che gli affollavano il cervello, mandandoglielo in tilt.
Di certo, Nuccio aveva saputo toccare le corde giuste, quelle dell’orgoglio professionale, del talento frustrato, delle ambizioni represse, del bisogno economico.
Don Sasà pensava che con quei soldi il suo Gnazino non avrebbe più avuto problemi a terminare gli studi e che lui avrebbe potuto regalare un avvenire più tranquillo a tutta la sua famiglia.
“E non sarebbe una cosa sacrosanta dopo una vita di lavoro? D’altra parte” continuava a ripetersi, “se il sensale dice che gli oggetti sono quasi puliti, che non provengono nè da furti nè da rapine nè da fatti di sangue, sarà così. Qualche volta bisogna pur fidarsi del prossimo!”
In cuor suo, don Sasà sapeva bene che così non poteva essere perché, in tal caso, non gli avrebbero offerto tutti quei soldi per fare quel lavoro, ma doveva convincersi, non per il suo bene ma per quello della famiglia, che le parole del sensale erano sincere e alla fine se ne convinse. Ma la coscienza?
«Lo sapevo che siete un uomo ragionevole e che tra persone perbene ci saremmo intesi perfettamente!» esclamò Aiello, felice come una Pasqua, quando don Sasà gli comunicò che aveva deciso di accettare la sua offerta.
«Allora, don Sasà carissimo, i denari li avete messi al sicuro? Ebbè ora metteteci pure questi» e, dal doppiofondo della sua valigetta magica, estrasse un involto di fogli di giornali che conteneva i gioielli più belli che don Sasà avesse mai visto.
“Le foto non rendono del tutto la bellezza di questi gioielli” pensava don Sasà. “Questa parure vale una fortuna.”
«Io» continuò Nuccio, «domani mattina, riparto per i miei giri e conto di ritornare qua… diciamo… tra una decina di giorni. Per allora, sono sicuro che voi, con questa roba, avrete fatto un lavoro sopraffino.»
Ciò detto, tese la mano a don Sasà che non potè esimersi dallo stringerla. Però, non appena il sensale se ne fu andato, sentì l’impulso irrefrenabile di correre in bagno a lavare lungamente quella sua mano destra, per togliere il senso di viscido che quel contatto gli aveva lasciato.
La notte del pover’uomo, dopo il patto scellerato suggellato da quella ripugnante stretta di mano, è paragonabile soltanto a quella che il Manzoni fa passare all’Innominato, dopo l’incontro con Lucia.
Don Sasà si girava e rigirava nel suo letto, senza riuscire a prendere sonno. Il baccalà alla livornese, che aveva mangiato a cena, sembrava divertirsi un mondo a fare su e giù dallo stomaco alla bocca e dalla bocca allo stomaco.
“E se poi u sensale mi futti e quei gioielli non sono quelli che dice lui?” pensava. “Ma no! Va be’ che Aiello è quello che è ma è anche vero che io sono stato sempre prevenuto verso di lui. Stavolta però mi pareva sincero. Ma perché vinni a circari proprio a mia e perché mi offre tutti quei piccioli? Ma me l’ha spiegato lui stesso il perché! Perché sono l’orefice più bravo che canosce; lo disse o no che sono un artista? E va be’ che Aiello è quello che è ma il suo mestiere lo canosce; di gioielli se ne intende; il talento u sapi vìdiri e lo sa apprezzare. E d’altra parte, gira tutta l’Italia; chissà quanti altri orefici canosce! Poteva rivolgersi a chiunque, a gente più disponibile, che non va a guardare il pilo nell’uovo ma nossignori! Proprio a mia vinni a circari; e perché si doveva scomodare a venire fino a ccà, a pregarmi, se non per il fatto che ci piace pi davveru come travagghiu? Ma se poi mi vaiu a ficcari in qualche imbroglio? Si m’arrestano? Che vergogna per mia, per la mia famiglia! Qui ci canoscono, ci stimano e ci rispettano tutti.”
Sudava don Sasà, malgrado non facesse caldo, e sentiva i succhi gastrici che gli perforavano lo stomaco, peggio di una punta di trapano.
Si era già alzato un paio di volte per andare in cucina a bere acqua e bicarbonato.
«Totò ma chi hai? Smanìi. In questo letto pari ca c’è u terremotu. Ma ti senti mali? Voi qualchi cosa?» gli chiese la moglie, preoccupata.
«No Rosina; niente è. Mi pigliò una botta d’acidità ma mi vippi l’acqua col bicarbonato; ora mi passa. Dormi!»
Alla fine, per non disturbare ulteriormente la moglie, don Sasà decise di trasferirsi in salotto, sul divano. E qui, come Dio volle, verso le quattro, finalmente riuscì a pigliare sonno.
Gli sembrava di avere appena chiuso gli occhi, quando sentì suonare incessantemente il campanello. Si alzò come inebetito e, barcollando, raggiunse la porta d’ingresso. La aprì e si ritrovò con un mitra spianato davanti alla faccia.
«Siete voi Salvatore Calì?» chiese con tono rude l’uomo che imbracciava l’arma e che don Sasà riconobbe subito per Bartolomeo Indelicato, vice brigadiere dei carabinieri, in servizio presso la locale stazione dell’Arma e suo abituale avversario di gioco nelle accese partite di scopone scientifico disputate la sera dopo cena, al bar del paese.
A dargli manforte, c’erano due altri carabinieri. Fuori, lo scenario era apocalittico: militari armati dappertutto, macchine e camionette dei Carabinieri e della Finanza, con i lampeggianti accesi e tanta gente assiepata davanti alla sua casa.
«Bartolo, ma che ti sei rincoglionito o è uno sgherzo? Io sono! Ma che fa, non mi arricanosci?»
«Nossignori! Non c’è sgherzo» rispose severo il militare. «Salvatore Calì, siete in arresto e dunatimi i polsi senza fare resistenza, che vi debbo ammanettare.»
«Bartolo, ma che dici? Quali polsi? Quale ammanettare? Ccà sbaglio c’è! E poi chi è tuttu st’ammuinu? Io Salvatore Calì sugnu! Che mi avete scanciato per il bandito Salvatore Giuliano?»
«Nossignori; non c’è sbaglio! Eppoi, tra voi e Giuliano non c’è differenza. Tutti e dui criminali siti, tali e quali!»
«Bartolo, ma perché mi dici così? Perché mi vuoi arrestare? Chi fici?»
«Perché vi voglio arrestare? Voi lo sapete bene. Vergogna!»
A quelle parole, la folla cominciò a inveire contro il povero Calì, che si sentiva pigliato dai turchi.
«Vergogna! Vergogna!» gridavano i paesani che lui riconosceva tutti, uno per uno. Gente che fino al giorno prima lo stimava, lo rispettava, lo riteneva un galantuomo.
Improvvisamente, dal fondo della strada, avanzò un uomo con in dosso una toga nuova nuova. Man mano che si avvicinava alla casa di don Sasà, la folla ammutoliva e gli faceva largo. Finalmente, anche don Sasà lo riconobbe; era Gnazino, suo figlio.
«Gnazino, ma che ci fai con la toga? Che ti sei laureato?»
Gnazino, pallido come un morto, non rispose. Si strappò la toga di dosso, la buttò per terra e cominciò a calpestarla. Poi, puntando il dito indice contro don Sasà: «È colpa vostra!» gridò con quanto fiato aveva in gola.
«Ma no, Gnazino; ma perché mi dici questo? Ma che ho fatto?»
«Che avete fatto lo sapete bene. Vergogna! Vergogna!»
Allora la folla, fino a quel momento impietrita, parve rianimarsi e riprese a urlare all’unisono: «Vergogna! Vergogna!»
«No! No!» gridava don Sasà, disperato. «Credetemi, io non ho fatto niente, sono innocente! Innocente sono! Mi hanno ingannato!»
Don Sasà si svegliò in un bagno di sudore; perfino i cuscini del divano erano zuppi.
L’orologio segnava le cinque e quaranta. A quell’ora precisa, Salvatore Calì, come se gli fosse apparso l’arcangelo Gabriele a comandarglielo, prese una decisione solenne, irrevocabile come il giudizio divino; decisione che, malgrado il mal di testa che gli era scoppiato, lo fece sentire come rinato.
“Non se ne fa più di niente!” proclamò a sè stesso.
“Non me n’importa di quello che Aiello potrà fare. Non me ne importa di quello che potrà dire. Non me ne importa se gli ho stretto la mano. Non me ne importa dei soldi. Il rispetto di me stesso e la tranquillità della mia coscienza sono più importanti di tutto. Gnazino, se il Signore mi fa la grazia di poterlo ancora mantenere agli studi, si laureerà, altrimenti farà come tanti altri giovani; si troverà un lavoro onesto. In fin dei conti è un ragazzo istruito e serio e camperà lo stesso. Ora chiamo il sensale e gli dico che ci ho ripensato, che l’affare salta, che venga subito a riprendersi gioielli e piccioli che non ne voglio più sapere. Già, ma dove lo trovo?”
Solo in quel momento, don Sasà si rese conto di non avere alcun recapito di Nuccio Aiello. Sapeva solo che aveva preso alloggio in un albergo di Palermo ma non sapeva quale nè aveva pensato a chiedergli il numero di telefono.
Avrebbe dovuto per forza aspettare che passasse quella decina di giorni prima di poter rescindere il patto.
“E comu fazzu?” prese a disperarsi nuovamente. “Io, sti gioielli non li vogghiu vedere più e mancu i piccioli! E se nel frattempo mi venissero a fare un controllo e me li attrovassero dintra a casciaforte, come ce lo spiego che io, cu sta roba, non ci volevo più tràsiri?”
Don Sasà riprese a sudare e i succhi gastrici ritornarono alla carica. Poi, un’idea improvvisa lo rincuorò. “Ma certo!” si disse, con un sospiro di sollievo. “Gigino Lamantìa! Sono sicuro che non mi dirà di no.”
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